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Dott. Florio Vincenzo

ATTACCHI DI PANICO
la società che ha e che fa paura

Tutti gli attacchi di panico possono essere descritti come una manifestazione improvvisa di angoscia estremamente intensa che colpisce le persone senza alcuna prevedibilità e senza la possibilità di poterli arrestare. Questa angoscia trova manifestazioni somatiche attraverso il sistema neurovegetativo causando palpitazioni, tachicardia, vertigine, tremori corporei, diarrea o sudorazione eccessiva e soprattutto sensazione di soffocamento con sensazioni di grosso peso sulla parte superiore del torace.

Naturalmente per essere diagnosticabile come attacco di panico devono poter essere escluse patologie organiche. Le manifestazioni dell’attacco di panico hanno un’origine squisitamente psichica.


Cosa posso fare durante un attacco di panico?

Potremmo individuare due momenti dell’attacco di panico: il primo, in cui l’angoscia è ancora avvertibile, e il secondo, in cui l’attivazione fisica prende il sopravvento determinando il sopraggiungere del terrore per la propria integrità fisica.

Arrivati a questo punto non c’è più troppo spazio per elaborare psichicamente l’angoscia e, dunque, a prendere la parola è direttamente il soma, il corpo che suggerisce a chi subisce l’attacco di panico l’idea imminente della propria morte o, ancora, della propria follia. Durante l’attacco di panico i circuiti neurovegetativi della persona sono talmente sollecitati da far perdere qualsiasi controllo razionale in favore di una ipervigilanza fine a se stessa. Questo significa che il paziente smarrisce la capacità di autocontenimento e avverte l’incombenza della morte.

Neanche la constatazione della sopravvivenza porta una rassicurazione certa in grado di evitare la ricomparsa degli attacchi né si produce un convincimento che permetta di superare le proprie paure giudicandole del tutto infondate.

E' per questo che è importante immaginare che i migliori risultati per contrastare questo disturbo siano i risultati di sforzi che si effettuano nell'ambiente protetto di un percorso psicoterapico.

Perchè dopo un attacco non imparo che non c'è nulla da temere?

A determinare la reiterazione degli episodi di panico c’è il condizionamento che si stabilisce nella mente tra stimolo, immaginazione e risposta emotiva. Si determina, infatti, una associazione difficile da smantellare che è in grado di concretizzare la percezione di un immanente pericolo di vita. Paradossalmente è come se lo scampato pericolo rafforzasse il valore dell’allarme generato creando le condizioni per nuove crisi di panico in grado di assicurare una rinnovata “salvezza”.

Come leggere dunque analiticamente questi attacchi di panico?

Questi sintomi somatici non sono necessariamente legati a un particolare conflitto inconscio. Si può avanzare l’ipotesi che sia il “sistema difensivo”, ovvero le modalità che ognuno di noi più facilmente adotta per rapportarsi ai problemi del mondo interno o reale, perdano la loro capacità di funzionamento e di contenimento dell’angoscia.

Come è possibile intervenire?

La terapia psicoanalitica, che considera l’attacco di panico conseguenza di un disturbo dell’identità personale e della crisi di assetti difensivi, ha come scopo quello di agire a livello strutturale e non puramente sintomatico. Questo non significa trascurare il lavoro con il paziente diretto sulla fenomenologia della crisi di panico. All’interno dello spazio protetto della terapia, infatti, è sempre da preservare l’opportunità di lavorare sulla focalizzazione del vissuto emotivo del paziente che precede e segue l’attacco di panico, di creare le condizioni per rendere pensabile tutto il materiale che ha contribuito alla formazione dei sintomi e puntare recupero dei processi psichici inconsci che normalmente consentono di modulare l’ansia. Si può asserire che l’intervento analitico cerca di lavorare sul livello più elevato e complesso perché pone al centro il lavoro sulla struttura di personalità che è determinante non soltanto nella costituzione del sintomo patogeno ma anche per il recupero dell’equilibrio del proprio mondo interno e della propria dimensione relazionale.

E' possibile che non ci siano altre strade e che sia costretto ad affrontare una psicoterapia?

Forse più che escludere una psicoterapia sarebbe più proficuo a immaginare di quanti e quali aiuti posso avvalermi. Accanto al lavoro analitico, o in sua sostituzione, sono stati concepiti altri tipi di lavoro che sintetizzerò al massimo:

Un approccio di tipo biomedico, che adotta psicofarmaci con lo scopo di ridurre l’intensità delle reazioni neurovegetative scatenate dal sistema limbico, di combattere lo stato depressivo di base e che può essere un utile supporto alla psicoterapia. Questo perchè le medicine posso aiutare a mitigare i sintomi di un disturbo ma non possono intervenire sulle  cause  scatenanti e sulla capacità dell'essere umano di produrre cambiamenti  che possano migliorare la qualità della vita in maniera strutturata. Ad oggi per ricercare un cambiamento strutturale la strada migliore e quella di un serio lavoro psicoterapico.

Un approccio cognitivo, che si limita a cercare una correzione della distorsione percettiva, attraverso strategie di decondizionamento e graduale esposizione del paziente allo stimolo che induce il terrore che, tuttavia, sembrerebbe trascurare un lavoro sulle cause psichiche che hanno generato questa sofferenza nel paziente.