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Dott. Florio Vincenzo

La "CRISI" sul Lettino


In Italia esistono all’incirca 4 miliardi di motivi per immaginare una ristrutturazione della sanità pubblica che possa fornire una nuova collocazione di risorse, servizi e figure professionali. Tra quest’ultime una particolare attenzione potrebbe meritarla lo psicologo.

Si tratta di una considerazione che, per quanto impegnativa, può recare con sé benefici fruibili dalla società intera. Questo perchè le ripercussioni positive dovrebbero essere in grado di interessare sia la promozione della salute, attraverso interventi di prevenzione, sia i conti in rosso dello stato assistenziale usufruendo di una riduzione delle spese per esami diagnostici, posti letto e farmaci. Ma come può l’assunzione di personale consentire un abbassamento delle spese?
Come evidenziato nella originale ricerca del professor Luigi Solano, docente dell’Università La Sapienza di Roma, ciò sembra più semplice di quanto si possa sospettare. L’affiancamento dello psicologo ad un medico della mutua sembrerebbe permettere, finalmente, un miglioramento qualitativo della presa in cura della “persona”. La scelta di quest’ultimo termine è sostanziale perché fino ad oggi il sistema sanitario nazionale ha assicurato la presa in carico del “malato” o, nei casi peggiori, addirittura della semplice “malattia”. Spero che questa espressione non indigni la classe medica e, in particolare, la sua “umanità” di cui non intendo mettere in discussione l’esistenza bensì il suo esercizio nella pratica professionale.

Di fatto l’impermeabilità alle difficoltà altrui credo che possa essere considerata una componente funzionale ed essenziale della professione di matrice biomedica. Nessuno vorrebbe affidare la propria guarigione ad un professionista cui tremino le gambe, a una persona sopraffatta dall’apprensione per le nostre condizioni, emotivamente coinvolta fino al punto di scoprirsi incapace di lavorare lucidamente. Tuttavia questa proprietà così utile per la costruzione di un piano prognostico diventa un’arma a doppio taglio per quei casi, ad esempio, in cui una malattia organica non sia effettivamente riscontrabile o, più comunemente, si accompagni ad un disagio psicologico. In questi casi, potremmo dire, il paziente porta nella stanza del medico una domanda che difficilmente potrà trovare effettivo accoglimento. Non si tratta di giudicare la classe medica incapace, ma di evidenziarne la mancata preparazione a raccogliere una domanda di aiuto non immediatamente traducibile in un disturbo fisico. Naturalmente ciò non significa che il paziente in questione sarà destinato all’abbandono ma, più verosimilmente, il suo disagio verrà “medicalizzato”. Con ogni probabilità il medico curante metterà in moto un iter complesso fatto di esami diagnostici e prescrizioni farmacologiche tese alla scomparsa del sintomo. Queste, se da un lato consentono il prosieguo del monitoraggio del paziente, dall’altro lato non consentono alla persona di trovare una definizione effettiva della sua domanda di aiuto.

In termini di spese statali, un caso del genere, può comportare un impiego di risorse economiche molto estese. Basti pensare, ad esempio, che se in questo iter diagnostico la persona dovesse trascorrere una notte in ospedale la comunità dovrebbe coprire una spesa pari a circa 800 euro.
La conclusione di storie simili è l’individuazione da parte dei medici di malesseri dovuti “soltanto” a questioni di natura psicologica. E’ incredibile quanto sia ancora molto grande la rassicurazione che deriva da un’espressione simile e quanto raramente tale premessa insinui la convenienza di richiedere un colloquio a un professionista del settore.

A questo punto si potrebbe obiettare con cinismo che una simile evoluzione del caso in esame comporti almeno l’evitamento di ulteriori spese e, dunque, anche la garanzia di un risparmio economico certo. Si tratta, però, di una mera illusione che trova consistenza ignorando, sottovalutando e negando l’evenienza che la prevenzione del disturbo mentale, percorribile investendo tempestivamente nella professione psicologica, possa evitare la moltiplicazione delle spese future in termini di centri di diagnosi e cura, psicofarmaci e di quei trattamenti terapeutici supportivi destinati a protrarsi oltremodo a causa della gravità della situazione clinica. Il sistema sanitario quindi preferisce evitare un piccolo impegno economico nell’immediato che, purtroppo, non fa altro che determinare l’aggravamento dei costi che sarà costretto ad affrontare in un secondo momento.

E’ opportuno evidenziare, poi, che è soprattutto a causa della mancata capacità del sistema sanitario di progettare un accoglimento concreto del disagio psichico che ancora sussiste il mito della “inutilità” del trattamento psicoterapeutico e della concezione, dagli effetti ancora più devastanti, che la sofferenza psicologica debba essere passivamente accettata. Premessa di un lavoro terapeutico non può essere la semplice prospettiva di imparare a tollerare le dimensioni più frustranti della propria vita, giacché un simile obiettivo può essere facilmente conseguito in solitudine, ma il desiderio di produrre uno sforzo continuativo utile per divenire degli artefici più consapevoli e attivi del proprio destino. Appare chiaro che senza la moltiplicazione di spazi pubblici dedicati al disagio ci sarà sempre difficoltà ad affermare il proprio diritto al benessere e alla salute mentale.

Nonostante il sistema sanitario nazionale sia in piena crisi, l’idea di una rivoluzione organizzativa radicale non è soltanto lontana da una eventuale realizzazione ma è anche molto distante dalla semplice possibilità di poter essere concepita.Di fatto i numeri di questa crisi sono una realtà così drammatica da aver completamente paralizzato le capacità creative del paese vincolando ad una paralisi dettata dalle sole esigenze “economiche”. Non ci troviamo soltanto di fronte a problematiche di natura economico-monetarie ma anche dinanzi a complicazioni “economico-psichiche” come proverò a spiegare più avanti.

Attualmente i numeri del deficit sono così inquietanti da lasciare un margine di azione molto ridotto. Basti pensare che solo la regione Lazio ha un debito pari ad 1,3 miliardi di euro. Si trovano in cattive acque i conti di Campania, Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia ma anche di Abruzzo, Molise, Liguria e Veneto. Naturalmente una situazione così drammatica è il frutto di problemi estremamente complessi, pertanto questo articolo vuole essere l’occasione per una riflessione che va ben al di là della risibile prospettiva di ripianare l’intero deficit pubblico semplicemente attraverso l’infoltimento di una categoria professionale lasciata ai margini dell’impiego come quella degli psicologi. Non avendo, dunque, strumenti per far luce sui reali responsabili di questo sfacelo proporrò una semplice analisi “clinica” sulle strategie che si stanno adottando per inseguire il risanamento.

Se, come in un sogno, infatti, cessassimo di guardare all’A.s.l. come ad un freddo soggetto giuridico e potessimo, invece, confrontarci con questo come se fosse una persona, di colpo migliorerebbe la percezione di questa crisi o, quanto meno, ne otterremmo una rappresentazione più vicina alla esperienza comune. Dinnanzi ai nostri occhi, infatti, avremmo una persona sofferente, ormai stanca della propria vita, incapace di spiegare come le sue difficoltà possano essersi spinte così oltre.

A guidare l’ipotetica soluzione alle proprie difficoltà, però, troviamo soltanto il principio del “risparmio” economico che in termini psicoanalitici definiremmo come ritiro degli investimenti dal mondo oggettuale. Potremmo dire, in maniera del tutto generalizzante, che la persona avverte come sua unica possibilità di sopravvivenza la resa, l’allontanamento dalla sua tragica realtà in attesa che la situazione possa volgersi al meglio rinunciando, dunque, ad affrontare dimensioni anche molto importanti della propria vita. A ben guardare possiamo facilmente riconoscere come questo stesso principio del risparmio economico stia guidando anche i manager attualmente impegnati al miglioramento del bilancio sanitario. La parola d’ordine è quella del taglio, del ritiro di servizi finanziati fino ad oggi e scoperti improvvisamente inutili. L’imperativo, curiosamente, non è impegnarsi ad organizzare prospettive virtuose che possano creare profitti in futuro ma fare cassa unicamente attraverso il risparmio, cancellando di fatto qualsiasi spazio di riflessione probabilmente giudicato inutile e dispendioso. In definitiva, ciò a cui si sta rinunciando è la costruzione di un piano di sviluppo che possa essere realmente funzionale a esigenze economiche e sociali a favore di un intervento “ortopedico” che illusoriamente possa restaurare l’antico equilibrio ormai andato perduto.

Di fonte alla condizione depressiva del sistema sanitario, mi spiace dirlo, la categoria professionale degli psicologi risulta ampiamente impreparata ad operare. Questa non soltanto lascia il campo libero alla medicalizzazione della sua disciplina, basti pensare al sopruso subito con la definizione dello psicologo di base o all’ingresso del corso di laurea di Psicologia de La Sapienza nella facoltà di Medicina, ma continua a non fornire alla sua professione l’unica cosa che le consentirebbe di crescere nell’attuale società: un profilo economico che sappia avere un taglio anche imprenditoriale. Al contrario della classe medica da sempre sostenuta sul mercato dalle potenti multinazionali dei farmaci, la professione psicologica è chiamata a colmare da subito questa lacuna altrimenti qualsiasi speranza di trovare riconoscimento attraverso un’estesa collocazione nei servizi offerti al cittadino non rimarrà altro che una pia illusione.

Roma 2010